Pubblicato Mar, 07/08/2018 - 13:10
In questa estate duemiladiciotto che ci butta addosso tutta la crisi della postmodernità e la fragilità dei rapporti personali, comunitari, politici, la bisaccia del pellegrino ha bisogno urgente di far posto, oltre alle cose utili per il lento camminare, a parole che siano valore.
Le parole che cerchi, caro amico della porta accanto, o che cerchiamo, caro “non so chi tu sia” lontano camminatore di mare e di terra, si colorano di sillabe di buona speranza. Le parole, oggi (il plurale ci attrae sempre, non è solo una questione semantica, è anche un fatto geopolitico…), quelle che ci piacciono e che vorremmo qualcuno ci sussurrasse, diventano la parola che cerchi.
Un singolare che è anche plurale. Una parola d’altri tempi. Parola sacra, certo, ma anche parola laica, che odora di cammini e allontanamenti. Un ti voglio bene, per esempio. Un ciao, come stai. Un ti amo, perché no. Ho cura di te.
La parola che cerchiamo è una parola gentile, sobria, di poche lettere, garbata. Parola che sa di libri appena sfogliati, dischi finalmente ascoltati, musica migrante. Parola che odora di pane fatto in casa, silenzi oranti, canti popolari, musica ancestrale e tavole imbandite per sostentamento e incontro. Parola per mani che si cercano.
È così difficile? La parola che cerchi, caro amico ospite in un tempo di passaggio, e che viviamo sulla pelle dei nostri mondi e delle altre rive e coste affamate di sbarchi disperati, è la parola che vorremmo fosse detta a noi. Appoggiata sui nostri corpi. Adagiata sulle nostre fragilità e timidezze. Per un’estate diversa, di passaggio, leggera come il vento che in alcune sere ci mostra il creato in tutto il suo mistero.
Nella bisaccia del pellegrino, oggi, adesso, in questa estate di acqua e di sale, facciamo posto a una parola di cielo e di terra. Che sa accogliere con gentilezza e allegria un Dio che sorride.
Gianni Di Santo